- Covid e lavoro: smart working destinato a restare anche una volta finito il virus;
- Notevoli impatti sulla salute mentale delle persone soprattutto a causa di un’informazione sempre tendente al drammatico;
- Fare sport in pandemia: tra i ragazzi percentuale di praticanti quasi dimezzata.
Il 2020 è stato un anno che non dimenticheremo mai. Il Coronavirus ci ha colpito nel modo più duro possibile, mostrandoci tutte le fragilità del nostro sistema politico, economico e sociale e costringendoci gioco forza ad un adattamento, rapido quanto problematico, a questo mutato scenario.
Il virus ci ha trascinato indietro di qualche anno per quanto riguarda speranza e condizioni di vita, economia, lavoro, istruzione e, a distanza di due anni dallo scoppio dalla pandemia, fatichiamo ancora a capire come tutto questo possa essere successo. Dalle notizie dei primi casi nella lontana Cina, fino al primissimo caso italiano sono passate solo alcune settimane, troppo poche evidentemente per prendere reale consapevolezza di quello a cui saremmo andati incontro. Alzi la mano chi, nel febbraio 2020, avrebbe previsto la possibilità di una pandemia globale che a distanza di due anni sarebbe diventata normalità e non più evento sorprendente.
Perché due anni sono tanti e in questo periodo di tempo le nostre vite sono talmente cambiate che ormai non ricordiamo nemmeno più come si stesse prima della pandemia.
Ma se tutto è cambiato è senz’altro vero che non tutto lo ha fatto con la stessa forza, alcuni strati della società hanno pagato infatti un prezzo molto più alto. Le donne in particolare sono state tra le più colpite dalla crisi pandemica, e questo su molteplici fronti, da quello della violenza di genere (esplosa in maniera incontrollata durante i mesi di lockdown), a quello economico- lavorativo. La pandemia ha amplificato le disparità di genere esistenti annullando di fatto i progressi ottenuti negli ultimi decenni. Da un’indagine realizzata da Ipsos per We World sulla condizione economica della donna in epoca di Covid-19 emerge un quadro catastrofico. Nell’ultimo anno una donna su due ha visto peggiorare la propria situazione economica, dato che sale al 60% se si prende in considerazione solo la fascia di età 25-34 anni. In Italia, delle 444 mila persone che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno, il 70% sono donne. Questo è accaduto proprio dal 2020, anno che segnava il venticinquesimo anniversario della dichiarazione di Pechino sulla parità di genere e che proprio l’emergenza Covid ci ha mostrato quanto sia ancora lontana dall’essere conseguita.
Lavorare ai tempi del Covid
Se si parla di impatto della pandemia sulla sfera lavorativa non si può non parlare dello smart working. Questa pratica lavorativa, pressoché sconosciuta in periodo ante Covid, è invece diventata ben presto punto di riferimento per una gran fetta di persone, me compreso che vi sto scrivendo questo pezzo dalla mia camera tutto spettinato e con le pantofole ai piedi. Ho scoperto l’esistenza del telelavoro dopo pochi mesi dall’inizio dell’incubo tramite mio padre che ,da un giorno all’altro, ha ricevuto l’invito dalla propria azienda a lavorare da casa, inizialmente alternando una settimana a casa e una sul posto di lavoro, poi due a casa e una in presenza e infine al 100% da casa. Mio padre è contento e come biasimarlo, sia alza un’ora dopo e mangia un’ora prima senza dimenticare i trenta minuti di camminata risparmiati che ogni mattina gli toccava di fare per recarsi dalla macchina al posto di lavoro.
L’esempio che vi ho fatto, mi è servito per spiegarvi come questa modalità lavorativa sia ormai diventata una vera e propria abitudine per molti di noi, un’abitudine che non sarà facile accantonare per chi come mio padre si trova bene e gode di oggettivi confort. Da un’indagine condotta da Microsoft sull’evoluzione del mondo del lavoro in periodo di Covid emerge infatti come il 73% dei lavoratori desideri proseguire lo smart working anche nel post epidemia. E non è tutto, dallo studio risulta anche come più del 40% dei lavoratori sia perfino propenso a lasciare l’attuale posto di lavoro per un altro in cui ci sia la possibilità di lavorare da remoto, e come su LinkedIn le offerte di telelavoro siano aumentate di oltre cinque volte durante le pandemia.
Il caso di mio padre unito ai dati portati da Microsoft mi portano ad una sola conclusione possibile: lo smart working proseguirà anche una volta finito lo stato emergenziale in cui siamo piombati da due anni a questa parte. Perché fa felici molti lavoratori che godono di confort e flessibilità negli orari che altrimenti non avrebbero e datori di lavoro che hanno trovato nello smart working una modalità di lavoro che assicura grande produttività.
Covid e salute mentale
Dopo aver analizzato come il Covid abbia stravolto la nostra vita lavorativa e come continuerà a farlo, spostiamo ora il mirino sul tema della sanità mentale. E’ innegabile che gli effetti della pandemia sono e saranno impattanti dal punto di vista psicologico e sociologico, uno stato di emergenza così prolungato, con la continua esposizione a notizie può infatti contribuire ad alimentare insicurezze e timori ormai radicati nella nostra testa.
Io stesso, vi devo confessare, mi sono trovato spesso disorientato di fronte alla miriade di notizie, talvolta persino contradditorie tra loro, e ai mille decreti usciti durante la pandemia. Non riuscivo mai a capire se si potesse andare al ristorante ed eventualmente in quanti seduti nello stesso tavolo e nemmeno se potessi uscire dal mio comune di residenza per andare a trovare i nonni distanti 30 chilometri.
La cosa però a mio avviso ancor più grave e nociva per la nostra salute mentale è stata l’informazione, sempre caratterizzata da tono drammatico, offerta dai mezzi di comunicazione, nessuno escluso, durante i periodi più bui di pandemia. Questa ha avuto l’effetto di creare in noi un terrore nei confronti di questo virus che ha raggiunto livelli molto più alti del normale e che ci ha fatto perdere di vista la normalità delle cose.
Mi vengono in mente colpi di tosse e starnuti in luoghi pubblici accolti dagli altri presenti come se la persona in questione fosse un untore di quella peste che Manzoni ha descritto nei Promessi Sposi. O scene di gente che alla vista di una persona con gli occhi a mandorla prendeva un’altra strada, quando magari non era neppure cinese ma coreana. Oppure, cosa ancora più grave, persone con serie patologie che, piuttosto che andare in ospedale a fare controlli di routine, hanno preferito non andare per paura di contrarre il virus mettendo così a rischio la propria salute. Tutti episodi a mio avviso favoriti dai mezzi di comunicazione.
A pagarne maggiormente le spese di questa situazione sarebbero però bambini e ragazzi. Da una vasta rassegna pubblicata su Jama Pediatrics, che ha confrontato i risultati di ben 29 studi, condotti su oltre 80 mila giovani in Italia e nel mondo, è emerso che 1 adolescente su 4 mostra sintomi clinici della depressione e 1 su 5 quelli del disturbo d’ansia. Un disagio mentale che sta mettendo a serio rischio un’intera generazione, come sottolineato dagli esperti della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia. Gli psichiatri hanno evidenziato che la probabilità di sviluppare disturbi mentali è più alta tra i ragazzi più grandi, che hanno risentito dei lunghi periodi di lockdown e restrizioni, costretti a rinunciare ai momenti tipici della crescita adolescenziale.
All’estero stiamo assistendo alla creazione di diversi piani proprio finalizzati ad alleggerire la comunicazione sul virus e facilitare così il ritorno alla normalità che si spera il più vicino possibile.
Negli Usa ad esempio è al vaglio la proposta di raggruppare i dati del Covid insieme a quelli di tutte le altre malattie respiratorie, cercando così di ridurre il più possibile quel clamore mediatico di cui il virus ha sempre goduto da due anni a questa parte.
Ritengo che una soluzione di questo tipo possa essere molto interessante anche per il nostro Paese. Bollettini giornalieri su morti e contagi, a mio parere non hanno più ragione di esistere e soprattutto non servono più a nessuno perché non fanno altro che scacciare il desiderio di normalità che è comune in tutti noi.
L’impatto del virus sullo sport
Tornando a mio padre, il suo ritratto fatto qualche riga sopra riguardo allo smart working avrà indotto molti di voi a considerarlo un perfetto pigro, grassoccio che trova nella camminata risparmiata il principale motivo della sua simpatia per il telelavoro. In realtà nulla di più diverso essendo da sempre uno sportivo, ex giocatore di calcio che ora si tiene in forma andando a correre quasi tutti i giorni. Da qualche anno ho iniziato a seguirlo nelle sue corse serali almeno per due giorni alla settimana, e per parlare di impatto del Covid sullo sport mi vengono in mente proprio due episodi vissuti correndo insieme, in due momenti diversi della pandemia. Il primo risale a marzo-aprile 2020 quando in regime di zona rossa, in cui era proibito persino uscire dalla propria abitazione se non per motivi di salute o lavorativi, abbiamo iniziato a correre nel cortile di casa. Una cosa che mai avremmo pensato di fare: oltre venti giri del cortile in circa cinquanta minuti, roba da fare invidia ai criceti. Il secondo episodio riguarda sempre la corsa ed è invece di un anno più tardi, sempre in zona rossa ma con un raggio d’azione già maggiore visto che si poteva uscire di casa stando però all’interno del proprio comune. In questo scenario la sede delle nostre corse era diventata la via più deserta del paese, una strada chiusa ma molto lunga ideale per correre, senza macchine e con bassissime probabilità di incontrare altre persone. Ricordo però che la strada in quel periodo era molto più popolata del solito, evidentemente era stata scelta da molti per il mio stesso motivo, un sacco di persone a passeggio, con il cane, mai vista così tanta vita in quella strada.
Questi esempi per spiegare come il Covid ci abbia costretto a scelte che mai avremmo pensato di fare ma che in quei periodi erano pressoché obbligate se volevi mantenerti in forma e prendere una boccata d’aria . E’ infatti evidente che la chiusura di palestre, piscine, campi da calcio, parchi, centri di danza e fitness abbia impedito a molti di dedicarsi alle abituali attività sportive costringendoli ad alterare la propria routine sportiva se non addirittura a bloccarla.
Vi sono poi una serie di indagini tese a misurare l’impatto del Covid sullo sport.
Dal grafico in figura emerge come 1 persona su 3 abbia cambiato sport causa a causa del virus, ma il dato senza dubbio più interessante è quello inerente alla percentuale dei praticanti sport prima e dopo la pandemia. Percentuale che scende per tutte le fasce di età ed in particolare per bambini e ragazzi dove è quasi dimezzata.
Numeri che faccio fatica a capire, sarò onesto. Avendo analizzato come il Covid stia impattando sulla salute mentale delle persone, soprattutto nei giovani, ritengo quantomeno discutibile abbandonare la principale fonte di sfogo dello stress accumulato: lo sport appunto.
In sintesi la pandemia ci ha cambiato: si lavora di più e diversamente da come eravamo abituati, ci si nutre di sempre più informazione anche se questa ci danneggia, e si fa qualche camminata in più anche in luoghi in cui mai avremmo pensato di farlo. A questo punto non resta che attendere il momento in cui la vita tornerà ad essere come la conoscevamo. Questo potrebbe anche non essere poi cosi lontano visto che la fine dello stato di emergenza è prevista per il prossimo 31 marzo (salvo ulteriori proroghe). Da quella data potremmo finalmente togliere le mascherine anche al chiuso e tornare a fare le cose che da due anni ci mancano tremendamente, ma una volta finita l’attesa saremo davvero in grado di farle?
Filippo Navarra